Feb
22
2011

I vizi - sch. 5 - catechesi giovani del 20 febbraio 2011

Ultimo aggiornamento (22 Febbraio 2011)
Stampa

I VIZI…

 

Dopo la trattazione sul tema dell’amore, in conformità con quanto la nostra Diocesi ci propone, ecco ora un nuovo tema, che ci terrà compagnia per un po’ di tempo…il tema dei vizi capitali.

Perché questo tema?

Perché ogni anno mi piace avere una trattativa morale, che ti faccia comprendere quali sono i cardini del pensiero cristiano su questo tema. Inoltre credo che sia una catechesi molto viva e vivace, che ci permetterà di discutere molto e a lungo. Infine credo sia utile tentare di far capire a dei giovani cristiani come sia bello camminare insieme anche sulla via della revisione della propria esperienza di vita e della formazione della propria coscienza.

Certo dei vizi si può parlare in molti modi. Ovviamente a catechesi, e tanto più in una sezione morale di catechesi, cercheremo di attenerci, fondamentalmente , ad un contenuto biblico e alla sapiente riflessione

della Chiesa che ha riflettuto sui VIZI in maniera costante. Naturalmente non mancherà qualche provocazione per il dialogo e qualche abbondante lettura, che, trarrò, principalmente, da uno scritto del Card. Ravasi, ex docente di Bibbia nei seminari milanesi. Cominciamo, ovviamente, con un po’ di dialogo!

 

LA PROVOCAZIONE

 Cosa significa per te la parola vizio?

 Ha senso oggi, nella nostra società, parlare di vizi?

 Quali vizi conosci?

 Quali realtà consideri vizio?

 Ci sono vizi antichi e vizi nuovi?

 Dove nasce un vizio?

 La Bibbia cosa ci dice in proposito?

 Cosa ti aspetti da questa catechesi?

 

. I vizi, malattia dell’ animo o della psiche?

 

PER LA LETTURA

I vizi ci aspettano nel corso della vita come ospiti dai quali prima o poi

bisogna passare. Dubito che l’esperienza servirebbe a farceli evitare nel

caso ci fosse concesso di fare due volte la stessa strada.

Francois de la Rochefoucauld, Massime

È difficile sottrarci all’accusa che ci rivolge lo scrittore moralista del Seicento in una delle sue circa cinquecento Riflessioni o sentenze e massime morali (tale era il titolo completo della sua raccolta pubblicata nel 1664), quella che abbiamo posto in apertura al nostro itinerario nell’orizzonte infuocato dei sette vizi capitali. Con molta sincerità e realismo dobbiamo riconoscere che nell’elenco di peccati che fra poco perlustreremo ci sono i lineamenti della fisionomia etica di ogni persona, naturalmente con le opportune variazioni e i differenti dosaggi. Quando si è di fronte alla strada comoda e larga del vizio, abbellita di luci e colori e segnata da cartelli invitanti, girare verso il sentiero di altura, netto e ripido, della virtù richiede una decisione gravosa.

La legge di Newton dell’anima

L’immagine delle due vie, simbolo della libera scelta, fa parte di tutte le culture. La si trova nell’Israele biblico: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene ma anche la morte e il male» (Dt 30,15). Riappare con una suggestiva variante nelle parole del Discorso della montagna di Gesù: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è, invece, la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono coloro che la imboccano!» (Mt 7,13-14). Ma anche il poeta greco Esiodo nel VII secolo a.C. ammoniva che «facile e agevole è scegliere il male, una via piana a noi molto vicina. Gli dei hanno imposto il sudore per la virtù: lunga e difficile è, infatti, la sua strada e, all’inizio, aspra. Quando, però, si raggiunge la vetta, diventa agevole ciò che prima era arduo»

(…)Certo è che «si può notare in modo costante che gli uomini, quando iniziano a decadere, sembrano obbedire alla legge di Newton: precipitano verso l’abiezione con rapidità crescente». Queste ultime

sono parole desunte dall’opera Il libro Le Grand (1826) di Heinrich Heine, importante poeta tedesco.

Esse coniano una «legge di Newton» dell’anima: quando si comincia a cedere al vizio, sia pure lievemente, ricorrendo a una scusante, non è che ci si fermi al primo girone. Il varco aperto si allarga e, spesso insensibilmente, si arriva al punto di non ritorno, quando dal peccato occasionale si passa al vizio stabile. Quei facili ma «tortuosi e obliqui sentieri» conducono «verso il regno delle ombre da cui non si fa ritorno», come ammoniva l’antico sapiente biblico (Prv2,15.18-19).

 

«Ci sono vizi vicini alle virtù»

Il vizio è, in sintesi, una categoria morale che denota una condotta negativa rispetto a un determinato sistema di valori, codificato a livello naturale (e quindi sulla base di un’antropologia filosofica) o a livello trascendente (qui entra in causa la morale religiosa) o in ambito sociale e comportamentale. La virtù è il suo antipodo, dato che essa è armonia con quelle norme o dominio della coscienza personale e della ragione su impulsi intimi o esterni. In entrambi i casi alla base c’è l’esercizio della libertà personale. Bisogna, però, riconoscere che esiste una lunga tradizione che ha cercato, e non a torto, un nesso o una certa continuità/discontinuità fra virtù e vizio. Avremo occasione di mostrare come una virtù impazzita, esasperata o ipocrita possa scivolare nelle paludi del vizio. E san Girolamo — il quale l’aveva desunto forse dal retore latino Quintiliano, e ripetuto più volte  che proclama: «Vicina sunt vitia virtutibus», ci sono vizi vicini alle virtù.

«Davanti agli uomini stanno la vita e la morte»

Esaurite le ricerche su nome e numero dei vizi, dobbiamo procedere sempre più verso il «cuore d’ombra» di queste abitudini che militano contro le virtù, individuandone l’essenza e le caratteristiche.

Due sono in sostanza i percorsi che si aprono davanti a noi e che potremo abbozzare solo con una esposizione molto snella e ridotta, senza pretendere di costruire un trattato morale. C’è la via

della filosofia etica e quella della teologia. Cominceremo da quest’ultima perché per secoli è stata, nella cultura occidentale, non solo la dominante ma anche quella che intrecciava e inglobava in sé la ricerca

filosofica. Inoltre, la base che la teologia adotta per edificare il su progetto ideale è costituita dalla Bibbia, che si rivela pur sempre il «grande codice» di riferimento culturale e morale della nostra civiltà occidentale. Come diceva il regista polacco agnostico Krzysztof Kieslowski, autore degli splendidi dieci film dedicati al Decalogo (1988), anche se noi quotidianamente li violiamo o li ignoriamo, i dieci comandamenti si ergono da millenni come una stella polare fissa e luminosa per il nostro ethos e per la nostra etica.

Le «dieci parole» che dalla vetta del Sinai s’irradiano nella valle ove è accampato Israele sono la rappresentazione emblematica di una morale che trascende la pura e semplice convenzione sociale: non per nulla esse hanno al primo posto un precetto che proclama la presenza unica e insostituibile di Dio («Io sono il Signore tuo Dio ...Non avrai altri dei di fronte a me», Es 20,2-3). Eppure la sequenza dei comandamenti rivela un legame con una serie di prescrizioni e proibizioni che sono comuni ad altre civiltà. C’è, allora, un fondersi armonico fra rivelazione divina e natura umana. Ed è per questo che fede e ragione si devono confrontare e incontrare; morale trascendente ed etica naturale, pur con la diversità dei loro approcci, si trovano spesso in consonanza e la loro dialettica si risolve ripetutamente più in un contrappunto che in un contrasto. Cerchiamo anzitutto di vedere come la Bibbia affronta l’orizzonte del vizio. I testi sacri propongono una concezione del peccato che suppone una duplice violazione: ci si ribella contro la proposta morale divina e si colpisce il prossimo. Alla radice, come vedremo trattando quel vizio che è un pò la sorgente degli altri, la superbia, c’è una qualità fondamentale

dell’uomo e della donna secondo l’antropologia biblica, cioè la libertà.

Le parole di un sapiente biblico del Il secolo a.C., cui spesso ricorreremo, il Siracide, sono esemplari: «Non dire: Mi sono ribellato per colpa del Signore ...Non dire: Egli mi ha sviato ...Dio, infatti, da principio,

creando l’uomo, lo ha lasciato in balia del suo proprio volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti, l’essere fedele dipenderà dalla tua volontà

Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (15,11-17).

Siamo, quindi, in presenza di una morale della libertà e della responsabilità, che non è però del tutto neutra e isolazionista perché la persona libera è sollecitata al male dal mondo e dal maligno, ossia dalla

perversione della società e dalla presenza diabolica; è sollecitata e sostenuta nel bene dalla grazia divina e dalla comunione nella giustizia e nell’amore degli onesti, dei giusti, dei «santi». Trattandosi di

una visione religiosa, è chiaro che la Bibbia identifichi l’idolatria e la negazione di Dio quali cause dei vizi. Il profeta Osea, per esempio, vede nell’assenza della «conoscenza di Dio» il fatto che «si spergiura,

si mentisce, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue» (4,1-2).

San Paolo affermerà che l’umanità, pur potendo conoscere naturalmente Dio, l’ha ignorato, «non gli ha dato gloria né gli ha reso grazie come a Dio e ha così vaneggiato nei suoi ragionamenti, ottenebrando la sua mente ottusa» (Rm 1,21).

Nasce così il vizio che è effetto della scelta libera e della negazione di Dio da parte dell’uomo, è il rigetto di una morale trascendente; si produce, così, uno stato di perversione che devasta la persona e

la società. Come si legge nel Compendio del catechismo della Chiesa cattolica (2005), il peccato  la cui trattazione è inserita nel capitolo dedicato alla «dignità della persona umana» —è «una parola, un atto o

un desiderio contrario alla Legge eterna (la citazione è di sant’Agostino), è un’offesa a Dio, nella disobbedienza al suo amore. Esso ferisce la natura dell’uomo e attenta alla solidarietà umana» (n. 392).

Naturalmente, si aggiungerà che quella del peccato non è l’ultima meta della storia umana, perché l’approdo supremo è la redenzione, nella quale «Cristo con la sua Passione svela pienamente la gravità del peccato e lo vince con la sua misericordia». La Bibbia si premura a più riprese di offrire una sua fenomenologia del vizio, presentandolo appunto come un effetto della perversione religiosa, cioè

dell’idolatria che è sinonimo di negazione di Dio, oppure, secondo la teologia di san Paolo, come «opera della carne», cioè il risultato dell’energia oscura e devastante del peccato.