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Riflessione sull’identità dell’Oratorio


L’oratorio pare essere il primo volto della comunità parrocchiale. Se il cuore della parrocchia è certamente la chiesa, la dove la comunità vive i momenti liturgici e cultuali che ne esprimono l’identità profonda, il volto col quale si mostra agli altri nella vita quotidiana, nel suo fare oltre che nel suo essere, questo è (là dove c’è) l’oratorio. Qui prendono forma le relazioni più dirette della comunità e la Parola del Vangelo è tradotta in atti e scelte concreti.

Giovanni Paolo II ha definito l’oratorio “ponte tra la chiesa e la strada”, collegamento tra coloro che vivono un’appartenenza fattiva alla comunità ecclesiale e coloro che non hanno questa appartenenza ma semplicemente camminano in un mondo di cui la Chiesa è parte, e forse l’hanno anche incrociata qualche volta nel loro cammino; l’oratorio dunque non è spazio esclusivo dei primi, e nemmeno ne è estraneo. L’oratorio è spazio di incontro, camminamento che rende possibile vincere le distanze. Potremmo dire, tenendo l’immagine del Papa, che l’oratorio non ha lo scopo di rendere tutto un unico spazio, le differenze tra strada e chiesa non sono eliminabili, ma proprio solo quello di rendere le due rive del fiume più vicine agevolando il passaggio dal mondo alla chiesa e dalla chiesa al mondo.

 

L’oratorio dunque è uno degli spazi per far incontrare vita quotidiana e vita di fede, forse per i giovani il più adatto; un giovane che volesse vivere questo incontro si troverebbe probabilmente l’oratorio come passaggio, come ponte, dunque come primo volto della comunità parrocchiale. È chiaro che l’oratorio si farà carico, allora, in modo particolare di una delle maggiori raccomandazione contenute nella nota pastorale della CEI, e cioè l’accoglienza. Tale raccomandazione è rivolta alla parrocchia ma emerge come esigenza necessaria anche in tutti gli studi presi in esame sull’oratorio, e non potrebbe essere altrimenti: il volto della comunità deve esprimere la sua identità, e l’identità della Chiesa, potremmo dire, è la sua missione evangelizzatrice verso tutti. Nessuno escluso. D’altra parte, tornando all’immagine di Giovanni Paolo II, un ponte sbarrato (anche solo per alcuni) non avrebbe motivo di esistere (almeno per quegli alcuni).

Accoglienza è termine però che va definito meglio, per non rimanere vago intento, pio desiderio. Accoglienza, partendo sia dalla realtà descritta sia dagli studi letti, si propaga in molte attenzioni che in un oratorio debbono esserci. Ne tentiamo una lista senza pretesa esaustiva e senza voler dare un ordine di importanza.

Fiducia. Chi entra in oratorio deve poter respirare un aria a lui favorevole, potersi muovere con disinvoltura senza la preoccupazione di dover vincere la diffidenza delle persone che lo frequentano o lo gestiscono. Occorre credere e mostrare che la presenza dei giovani, ogni singolo giovane, è ritenuta una guadagno, un vantaggio per la comunità; e questo ancor prima che egli abbia modo di esercitare le sua qualità e anche dopo un fallimento. Un giovane, guardando all’oratorio, dovrebbe cogliere che dietro c’è una comunità che scommette sui giovani. È l’humus fertile per tirare fuori il meglio di sé.

Libertà. L’oratorio deve essere percepito prima di tutto come spazio libero, aperto, dove certamente ci sono delle regole ma che servono per tenere il meccanismo ben oliato e non per mantenere tutto sotto un attento e sicuro controllo. Dunque regole non invadenti, stile informale e spazi aperti dove il giovane possa vivere la verità di ciò che è; spazio dove il giovane sia libero di venire e anche di andare, senza legami di tipo possessivo che non aiutano a crescere. In questo modo si potrà parlare della proposta evangelica come proposta di libertà.

Nessuna discriminazione. Uno spazio fatto di persone scelte è certamente più facile da gestire (forse anche più gratificante) ma non corrisponde né alla missione della Chiesa né al mondo e i giovani, anche quelli non discriminati, colgono subito come falso e non rispondente alle loro attese un tale atteggiamento. Se poi questo creasse effettivamente un gruppo consistente c’è da chiedersi se davvero l’esperienza di oratorio aiuti a crescere quei giovani oppure non li porti ad una certa chiusura.

Pluralismo. In un mondo, specie quello giovanile, dove esistono le tendenze più disparate e i modi più fantasiosi di intendere la vita e tutto ciò che la riguarda, è necessario che l’oratorio sia spazio per esperienze diverse, plurali. Scelte predeterminate impedirebbero anche il confronto, sempre arricchente, tra esperienze a volte anche dissonanti.

Protagonismo. Il giovane che frequenta l’oratorio deve poter crescere e non rifugiarsi in un luogo dove tutti pensano a lui, e magari al posto suo. L’oratorio non può essere il luogo che i grandi hanno preconfezionato per i giovani, nel migliore dei casi sarebbe un tentativo di replicare le generazioni sempre uguali ignorando che i tempi invece cambiano comunque. Il giovane che frequenta l’oratorio ha da essere e sentirsi protagonista, scoprire di avere delle capacità e riuscire a mettersi alla prova nel metterle a frutto. Senza un sano protagonismo diventa difficile educare alla responsabilità e portare il giovane a scoprire la dimensione vocazionale della propria vita.

Sostegno. Il giovane è spesso ancora alle prime armi nell’affrontare le complessità della vita; renderlo protagonista non vuol dire abbandonarlo a se stesso, mandarlo allo sbaraglio. L’oratorio deve essere anche luogo in cui il giovane si sente in parte garantito dall’appoggio di altri, anche adulti, educatori, che gli permettano di osare qualcosa di più o perlomeno lo rassicurino che nessun fallimento sarà definitivo.

Pazienza. È la capacità di accogliere i tempi di Dio che spesso non sono i nostri tempi. Nell’ambito giovanile i risultati non sono immediati, spesso addirittura non sono proprio: fioriscono poi nell’età adulta. La pazienza è necessaria per lasciare la libertà, per non forzare i tempi della crescita o della proposta, per mantenere un sano distacco da parte dell’educatore rispetto all’efficientismo, per coltivare un clima di serenità che favorisca relazioni autentiche.

Speranza. Si può avere spesso l’impressione che le energie e i mezzi impiegati in oratorio siano un fondo a perdere, ed effettivamente il rischio c’è. Qualora lo spazio oratorio non sia pervaso di speranza cristiana, capace dunque di far sorgere delle domande sul perché tanta fatica, tanta cura, esso si limita ad essere una forma assistenziale di servizi ai giovani, competenza non propriamente della parrocchia ma supplenza ad un compito della società. È forse proprio la speranza che nell’oratorio, in modo a volte misterioso, si svolge parte consistente della missione della comunità parrocchiale, a dargli il giusto indirizzo.

Attenzione particolare alle povertà giovanili. L’abbiamo già detto, la tentazione di costituire un gruppo di persone scelte è sempre in agguato, ma uno spazio di missione della Chiesa (come è l’oratorio) non solo deve vigilare  sull’assenza di discriminazioni ma accogliere le raccomandazioni di Gesù, ribadite anche da Giovanni Paolo II riguardo gli oratori, di attenzioni particolari alle varie forme di povertà e bisogno. I giovani in difficoltà non solo non vanno discriminati, ma verso loro dovrebbe esserci una attenzione particolare.

 

In quanto luogo significativo di aggregazione, di relazioni capaci di orientare al valore e al senso dell’esistenza, e considerato il tempo che taluni trascorrono all’oratorio, si può pensare che questo sia per alcuni di coloro che lo frequentano la comunità educante di cui ogni ragazzo e giovane ha bisogno ma è sempre più difficile trovare. Non è un caso, a tal proposito, che il diffondersi dell’oratorio sia stato contemporaneo allo sviluppo economico ed urbano del territorio che ha indebolito la compattezza delle famiglie. L’impegno in questo senso delle comunità parrocchiali può essere visto, a mio avviso, come un tentativo di aiutare le famiglie in difficoltà nella presenza assidua presso i figli. Tuttavia aiutare le famiglie non può assolutamente dire sostituirsi ad esse o permettere ambiguità in questo senso, perciò sarà necessario, da parte dell’oratorio, cercare di coltivare i rapporti con le famiglie coinvolgendole nel progetto educativo e nelle proposte.

 

Dunque l’oratorio è il primo volto “quotidiano” della parrocchia che un giovane incontra, perciò non ha solo il dovere dell’accoglienza ma anche la responsabilità di un primo annuncio del Vangelo. Il modo con cui viviamo l’accoglienza già dice qualcosa di noi, ma un incontro vero (e dunque un’accoglienza vera) si ha solo nella reciproca conoscenza, e l’identità della parrocchia è proprio il suo essere comunità unita dal Vangelo. Attuare un primo annuncio in oratorio non è dunque strumentalizzarlo, né l’oratorio è uno “specchietto per le allodole” realizzato al fine di attirare giovani da poi convertire. Il primo annuncio è parte integrante di quello spazio che si chiama oratorio, e forse ciò che lo distingue da tutte le altre iniziative di richiamo per i giovani, dunque il suo senso, la sua identità.

Una cifra che potrebbe sintetizzare, almeno in un primo momento, la modalità del primo annuncio in oratorio è aggregazione. Ribadito più volte esplicitamente da mons. Segalini (che parla addirittura di una “qualsiasi forma di aggregazione”), presente in tutti gli studi considerati e soprattutto nell’esperienza pratica, l’aggregazione è essenziale per l’annuncio di fede ai giovani. I motivi di questa forte sottolineatura sono due e molto importanti.

Un motivo di carattere teologico: la fede è fatto comunitario e non privato. La dinamica dell’annuncio, dell’accoglienza e della attuazione del Vangelo è sempre comunitaria; non si può pensare in credente cristiano chiuso nel suo mondo privato. Il Vangelo si alimenta del rapporto con Dio e delle relazioni con i fratelli.

Un motivo di carattere più culturale: in modo particolare i giovani sentono il bisogno di aggregarsi tra loro per poter realizzare un progetto, costruire qualcosa che duri oppure semplicemente per capire. Nel contesto della propria generazione i giovani possono pensare il mondo di domani anche attraverso il processo necessario del differenziarsi dalle generazioni precedenti, ma senza cadere nell’angoscia della solitudine e del proprio limite. È ancora nell’aggregarsi tra loro che i giovani possono comprendere meglio la propria identità e il proprio posto nel mondo, nella vita. Infine, è certamente importante specie per i giovani essere in tanti, li facilita nel sentirsi parte di qualcosa di grande.

Una comunità, dunque, che voglia avere cura dei giovani non può prescindere dall’aggregazione. Essa però non è, in oratorio, fine a se stessa ma ha una precisa volontà educativa. E poiché una comunità cristiana pensa l’educazione come accompagnamento di ogni persona nel suo cammino di maturazione, e la maturità umana cui si riferisce è quella di Gesù, contenuta nel Vangelo, ecco che il cerchio si chiude: l’aggregazione dell’oratorio contiene una precisa volontà educativa di primo annuncio evangelico.

Anche in questo caso aggregazione è termine da definire meglio in attenzioni di carattere pratico, capaci di orientare l’azione e la programmazione di un oratorio. Anche qui tentiamo una lista, sempre senza pretese di dare un ordine o di completezza.

Progettualità. Aggregare dei giovani non risulta particolarmente difficile, spesso ci vuole poco: un bar, un muretto, due panchine… Ma l’aggregazione dell’oratorio non ha come scopo l’aggregazione, bensì come strumento; ciò significa che c’è una direzione (uno scopo) verso qui muoversi, c’è la volontà di andare oltre. Perché il cammino di un oratorio possa ambire a mantenere la giusta direzione e non essere contraddittorio (specie nella pluralità delle proposte e dei frequentatori) occorre che ci sia un progetto, una traccia da seguire che funzioni di orientamento negli atteggiamenti e nelle scelte. Un progetto ampio nel quale tutti si possano riconoscere, ma sufficientemente chiaro da fare da punto di riferimento. L’improvvisazione può essere molto rischiosa.

Offerta. Lo spazio oratorio deve contenere delle proposte concrete e qualificate sia capaci di intercettare i gusti e le domande dei giovani (la musica, fare comunità, mangiare, la notte, internet…) sia esplicitamente formative/religiose (catechesi, cultura, attualità, testimonianze, volontariato, accompagnamento spirituale…). Fare offerte qualificate (che non necessariamente significa “alte”) è la testimonianza migliore della stima verso i giovani e della coscienza di avere una proposta valida da fargli.

Domande. L’esperienza di oratorio, più che affannarsi a dare risposte alle problematiche della vita dei giovani, dovrebbe essere in grado di far sorgere dentro di loro delle domande; in questo modo il giovane imparerà più facilmente ad essere responsabile delle proprie scelte e farà suo il cammino di fede senza sentirlo “imposto” dall’esterno. Far sorgere le domande educa alla libertà vera. È chiaro che se facilito il sorgere delle domande occorre dare anche delle chance di trovare confronto per arrivare alle risposte.

Formazione. Non possono bastare degli spunti, delle possibilità, delle occasioni; occorre che i giovani capaci di accettare la sfida di dare forma cristiana alla propria esistenza abbiano a disposizione dei percorsi veri e propri di maturazione umana e cristiana, con delle figure educative che li accompagnano. La delicatezza della proposta cristiana non va confusa con la timidezza, ma occorre il coraggio di proposte impegnative ed esplicite. Anche se accolte da pochi.

 

È molto complesso gestire la tensione propria dell’oratorio tra accoglienza aperta a tutti e primo annuncio, a cui non tutti sono disponibili; armonizzare in un buon equilibrio questi due orientamenti cercando di mantenere il più possibile ampia l’accoglienza del primo annuncio è la sfida di fondo dell’oratorio. Su questa sfida si gioca la sua identità: un “ponte” attraversato da pochi eletti serve a ben poco, un “ponte” che non porti all’altra sponda del fiume non è più un ponte ma un pezzo di strada come tanti altri.

Per vincere questa sfida c’è una strada obbligata: una responsabilità diffusa, con molte persone che si danno da fare, un progetto educativo condiviso e magari espressione del cammino della parrocchia nel suo insieme. Non è più pensabile che sia il sacerdote (o i sacerdoti dove ce ne sono più di uno) a sobbarcarsi il compito di condurre un oratorio: non lo può fare per la complessità dell’impresa che richiede tantissimo tempo, tante energie, tante competenze… e non lo può fare perché il rapporto uno a tutti, tipico di una conduzione incentrata sul prete, non è espressione di una chiesa che è spazio di protagonismo (e responsabilità) per tutti; e dunque nemmeno di libertà.

Non può essere che la comunità nel suo insieme a farsi carico dell’oratorio, dalla fase progettuale e a quella gestionale. Questo significa che l’oratorio è uno di quegli spazi di pastorale in cui in modo particolare i laici possono, e devono, portare il loro contributo senza nessuna soggezione. D’altra parte, come abbiamo già detto, l’oratorio è il volto “quotidiano” della comunità, la prima immagine di Chiesa/comunità con cui molti giovani vengono, o tornano, a contatto con la parrocchia (a parte, per alcuni, le azioni liturgiche), ed è quindi ben giusto che tale volto sia dato dalla comunità tutta intera e non da pochi delegati. Questa responsabilità della comunità tutta intera può giocarsi a livello fattivo (spendendosi concretamente per l’oratorio in qualche cosa) oppure, non poco importante, anche al semplice livello di simpatia (facendo sentire, in qualche modo, il proprio sostegno, la propria considerazione per l’oratorio e chi ci lavora).

Specie per il mondo giovane, dunque, l’oratorio si delinea come il volto missionario della parrocchia. Esso è espressione della sua missione di annuncio evangelico e amore del prossimo, ed è riconosciuto come volto col quale la parrocchia si rivolge al mondo (giovanile).

Ci pare sia questa la strada perché la comunità parrocchiale possa essere in grado di coinvolgere il giovane anche oltre la sua frequentazione del Centro. Capita infatti che un certo numero di giovani sia assiduo frequentatore dell’oratorio ma non si inserisca poi nella comunità in tutta l’ampiezza della sua vita, dunque anche nel suo ritrovarsi cultuale (ad esempio la celebrazione dell’Eucaristia domenicale). Un oratorio che sia realmente espressione della comunità, di quella stessa comunità che si riconosce nello spezzare il pane eucaristico, e nel quale tale comunità in qualche modo vive, sarà più facilmente ponte capace di vincere le distanze e avvicinare i giovani al vangelo e a Dio.

Questo della frequenza sacramentale non può essere criterio per l’accoglienza dei giovani all’oratorio, tuttavia rappresenta un ideale punto di riferimento verso cui camminare; è nell’Eucaristia che la comunità parrocchiale si riconosce come popolo di Dio, scopre la sua più intima identità e dunque il suo valore.